Come si è detto, accanto ai cereali, fin dall’antichità, l’olivo è stato nell’area mediterranea espressione di vita, storia e cultura. Allo stesso tempo è uno degli alimenti di base dell’uomo e i suoi derivati sono utilizzati anche come materie prime per l’illuminazione, il riscaldamento o come componenti medicinali o cosmetici.
L’olio d’oliva svolge anche un ruolo importante nei rituali religiosi, specie nella chiesa ortodossa, dove ha un forte legame con i riti come il battesimo o la benedizione.
Il processo produttivo dell’olio, era ed è basato sull’attrito e la frantumazione e, nonostante l’evoluzione della tecnologia, le fasi fondamentali della raccolta, della pulizia e del trasporto dei frutti, dell’attrito e della frantumazione rimangono ancora le stesse.
Come abbiamo visto per i cereali, anche per la produzione dell’olio inizialmente si utilizzavano semplici macine manuali anche qui poi sostituite da macine azionate con uomini e animali e a seguire da macchine sempre più perfezionate mosse dall’acqua.
Il processo iniziale di frizione e frantumazione non era particolarmente dissimile nell’intera area veneziana dove l’olivo dall’Egeo al lago di Garda era di fatto onnipresente.
Per quanto riguarda Creta, tra i secoli XIII-XIV sappiamo che la coltura delle olive non era ancora una priorità come invece erano i cereali e ancora nel XV secolo, Cristoforo Buondelmonti affermava che “L’isola aveva tutto per vivere tranne le olive, i frutti della Pallada” e questo per il disinteresse degli isolani.
Lo sviluppo particolare dell’olivicoltura inizia però a partire dal XVI secolo, tanto che da questo periodo l’olio d’oliva diventerà uno dei pilastri della produzione cretese divenendo uno dei più importanti prodotti di esportazione dell’isola, insieme al vino e al formaggio.
L’espandersi dell’olivicoltura si muove parallelamente al rifiorire della vita monastica che si registra a Creta tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo quando si assiste ad una consistente fondazione di nuovi monasteri accanto alla ristrutturazione di quelli esistenti; fenomeni dovuti in particolare ad una certa ripresa del pathos religioso, all’aumento di donazioni a favore dei monasteri di fronte al sempre alla sempre più viva preoccupazione di una definitiva occupazione turca e, non da ultimo, anche per effetto dell’allentamento dell’opposizione alla chiesa ortodossa da parte del governo veneziano.
La coltivazione dell’olivo e la produzione di olio divennero di particolare importanza soprattutto nelle comunità monastiche, non solo per l’uso rituale o per l’alimentazione, ma anche perché, come sottolineato dalle molte fonti, le proprietà monastiche, estese a diversi ettari di terreno, consolidavano con questa loro presenza il potere stesso della chiesa e con ciò il raggiungimento dei suoi più ampi scopi morali nella società. Le proprietà monastiche infatti venivano concesse a coltivatori, previo accordo tra l’abate e i monaci, con contratti a lungo termine che finivano per rinforzare il rapporto tra la chiesa e il popolo.
Informazioni indirette sulla produzione delle olive a Creta sono disponibili dalla fine del XVI secolo grazie ai codici e agli annali dei monasteri. Per quanto riguarda le lavorazioni, alla fine del XVI secolo, in un registro del Monastero di San Giovanni Theologo di Patmos, si fa riferimento alle spese necessarie per la riparazione di un frantoio. Nello stesso periodo ci sono riferimenti in documenti con ordini per abbeveratoi e macine.
La lavorazione che raccontiamo di seguito fa riferimento all’isola di Creta ma, lo ripetiamo, valeva pari pari in Istria, in Dalmazia o sulle coste prealpine riparate dai venti.
Le olive venivano messe nelle vasche di pietra per essere schiacciate. La “polpa” o “pasta” così ottenuta, veniva raccolta in sacchi di tessuto di lana chiamati “buste” o “boxades”, successivamente appoggiati su di una pietra rettangolare con una scanalatura per il drenaggio. A questo punto, sui sacchi veniva calato il “peso”, ossia una pietra intagliata sufficientemente pesante, spesso di forma conica, con un gancio metallico alla sommità per facilitarne lo spostamento, oppure con una fessura intagliata su un lato in cui veniva inserita una leva e veniva utilizzato un movimento semirotatorio per trasportarla.
In seguito, alla pressa di pietra si venne a sostituire una pressa di legno. Il sistema di compressione consisteva in due bulloni di legno che abbassavano la pressa nei dorbi e così l’olio fluiva nella scanalatura che a sua volta finiva nel “beccuccio”, cioè una giara con uno smalto interno, interrata nel terreno. Questo metodo, tuttavia, si rivelò troppo lento per una produzione di grandi dimensioni, per cui la necessità portò alla costruzione di un meccanismo più flessibile per creare la polpa o la pasta di olive: “il frantoio”. Il “frantoio” appartiene alla famiglia dei mulini, e funziona con una macina che viene fatta ruotare su una base di pietra.
Il funzionamento di questa macchina era basato su una combinazione di forza animale e umana, ed era costituito da una macina sostenuta da un supporto di legno, alla base di un albero di legno, posto al centro del bacino di pietra: “il bacino”. L’albero era collegato a un secondo albero di legno orizzontale, “il giogo”, che aveva all’estremità esterna le apposite prese metalliche in cui veniva agganciato l’animale. L’animale – generalmente un asino – veniva fatto camminare intorno alla “rotula” con l’aiuto di un uomo, mentre un secondo uomo provvedeva a immettere e distribuire il prodotto da lavorare servendosi di un attrezzo di legno.
L’aumento della coltivazione dell’olivo e quindi della produzione di olio d’oliva portò all’aggiunta di una seconda e anche di una terza macina. Questo tipo di frantoio, a Creta è chiamato “fabrica”, e da questo nome si può dedurre la maggiore possibilità di produzione di polpa di olive.
Le macine della fabrica hanno talvolta diametri e spessori diversi e molto spesso hanno spessori diversi sul diametro interno ed esterno. Questa costruzione favorisce la forza centrifuga che si sviluppa quando “i giri salgono”. La letteratura afferma che questo tipo di mulino è stato importato dall’Italia nel XIX secolo.
Intorno alla fine del XIX secolo furono utilizzate le presse metalliche e il “lavoratore”, una trave di legno verticale usata come argano con due alberi orizzontali per la rotazione, chiamati “paspoles”. La pasta, sempre riposta nelle dorbas, veniva impilata nella pressa – circa 25 dorbas – e pressata dalla testa della pressa, che era collegata ad una corda o ad una catena dette l’operaio. Era necessaria la forza muscolare di quattro uomini per far ruotare l’operaio in modo che la “testa” si abbassasse e premesse correttamente. L’olio scorreva attraverso il “beccuccio” in secchi di legno rivestiti parallelamente e divisi in due sezioni. Dopo la prima spremitura, i cesti venivano cambiati, bagnati con acqua bollente e pressati di nuovo.
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