Anche se oggi, nei territori indagati a sopravvivere sono solo le non poche testimonianze dei mulini da fiume, in realtà tutto lo scibile della tecnologia molitoria messa in campo dall’uomo, ha nel tempo trovato vita nelle terre della Serenissima.
Solo per i mulini da fiume quattro sono le tipologie che sono state usate:
- mulini natanti detti anche “Sandoni”, posti sopra l’acqua su apposite imbarcazioni a fondo piatto ancorate con catene o grosse funi alle rive o bloccate con ancore. Il piano delle macine era sorretto da due galleggianti fra i quali giravano le ruote. Caratteristici dei fiumi abbastanza ampi e a scorrimento non torrentizio, dovevano essere facilmente spostabili ed adattabili a diverse situazioni. Sulla sponda polesana del Po , a fine ‘800 se ne contavano ancora più di 100. Sull’Adige saranno presenti fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Sul Bacchiglione fino alla prima guerra mondiale quando sono stati eliminati per consentire una più estesa navigazione fluviale . Sul Brenta, dove si possono vedere in alcuni dipinti nei pressi del ponte di Bassano, fino al XVII secolo.
- Mulini a Pala verticale immersa nella gora. Il mulino si trova sulla sponda del fiume e le sue ruote sono posizionate su delle strettoie artificiali dette gore dove l’acqua accelerata con un salto artificiale spinge le ruote che vi sono parzialmente immerse, presenti ancora in grande numero nella pianura veneziana;
foto mulino di noale
- Mulini a “copedello” o a “casetta”, tipici delle zone montane o collinari dove la ruota posizionata verticalmente viene alimentata a caduta con una gora di deviazione che preleva l’acqua da un vicino corso. Abbisognavano di un minor quantitativo di acqua compensando la quantità con l’impressione cinetica data dalla caduta e si tratta della tipologia più diffusa nella zona istriana
foto di refrontolo
- Mulini a ruota orizzontale, caratterizzati da una produttività più bassa di quelli a ruota verticale, ma bisognevoli di corsi d’acqua più modesti e si tratta del tipo più diffuso nella zona cretese.
Foto da creta
A Venezia e in laguna, hanno funzionato anche “mulini a marea”, simili ai mulini natanti da fiume, e i classici mulini a vento, molto diffusi anche a Creta, ma che anche a Venezia sono stati a lungo protagonisti. Esistevano poi mulini a vento, anche in Istria, a Sergassi presso Gason (nel Capodistriano), uno a Medolino presso Pola, due a Rovigno sulla collina detta dei mulini, mentre un mulino a vento viene segnalato in Punta Mulino a San Lorenzo di Daila, nei pressi di Umago.
Mulini a marea erano diffusi un po’ ovunque in tutta la laguna, a Murano, a Torcello, nei pressi dell’arsenale, nei canali interni della città. La loro gran diffusione era dovuta direttamente alla loro bassa produttività, causata dalla scarsa escursione della marea lagunare, che raramente supera il metro, e anche alle poche ore utili di funzionamento giornaliere. Per ottimizzarne la rendita venivano costruite delle dighe a formare dei piccoli laghi che accumulavano l’acqua con l’alta marea che poi veniva fatta defluire con la bassa marea, innescando il movimento delle ruote. Nel ‘500 il diarista Marin Sanudo cita ancora la presenza di due “Sandoni” a Murano, portati da Cavarzere. Ma si tratta ormai di una presenza straordinaria legata alla contingenza della guerra contro al Lega di Cambrai e alla perdita momentanea da parte della Repubblica di tutta la terraferma con la conseguente impossibilità di accedere soprattutto ai mulini del trevigiano .
Di mulini a vento invece abbiamo notizie dal 1281 quando ne viene autorizzata la costruzione ad un certo Maximiano Ardito.
Nel 1342 Bartolomeo Verde è autorizzato a costruire dei mulini a vento nei pressi di San Michele di Murano e ancora, nel 1378, durate l’assedio della Guerra di Chioggia, viene ordinata la costruzione di quattro mulini a vento a S. Antonio di Castello. In una bella pianta della seconda metà del ‘500, eseguita per i Savi alle Acque, nella punta settentrionale di San Nicolò del Lido ne è ben disegnato uno, con tanto di indicazione, Molin da vento e in sua corrispondenza anche un pontile. Qui non c’entrano le macine e le farine, ma si tratta di uno dei tanti mulini a vento che erano presenti in quest’area per il sollevamento delle acque di falda che per le loro ottime qualità venivano utilizzate per le scorte idriche delle galee in partenza da Venezia.
Il mulino e le sue ruote dunque nelle loro varie forme e nei loro vari impieghi sono una presenza importante e sistematica nei territori della Serenissima.
Quale sia Il ruolo e il peso sociale che viene ad acquisire il mulino lo abbiamo visto più sopra nel caso della chiesa ortodossa a Creta, ma trovano un significativo corrispondente anche nelle istituzioni religiose occidentali la dove leggiamo quanto consigliato dal capitolo 66 della regola di san Benedetto da Norcia (480-547) che recitava:
Monasterium autem, si possit fieri,ita debet constitui ut omnia necessaria, id est acqua, molendinum, hortum vel artes diversas intra monasterium exerceantur, ut non sit necessitas monachis vagandi foris, quia omnino non expedit animabus eorum “ (Il monastero poi, deve essere costruito, se è possibile, in modo che ci sia tutto il necessario, cioè l’acqua, il mulino, l’orto e dentro il monastero si esercitino i diversi mestieri, perché i monaci non siano costretti ad andar girando fuori, il che non giova assolutamente alle loro anime).
Ma non è solo una questione di convenienza spirituale. Il mulino è anche un buon investimento. Un indice del peso economico dei mulini, ci ritorna attraverso gli estimi trevigiani, che attribuiscono ad ogni ruota idraulica il valore corrispettivo a quello di un’azienda agricola di dieci campi. Un valore significativo con una rendita ben diversa da quella della terra tanto che la proprietà, sia nello stato da tera che in quello da mar è quasi sempre esclusivamente in mano nobiliare o ecclesiastica, o anche in forme di comproprietà tra più persone che possiedono magari una sola ruota o anche parte di essa.
A Creta ad esempio la proprietà era di norma individuale in capo a signori feudali, ma non erano rari anche casi di proprietà monastica, ecclesiastica o comunitaria. In genere i mulini erano costruiti all’interno o nelle vicinanze dei villaggi, con lo scopo di garantirne non solo e non tanto un uso più comodo, ma anche e soprattutto di poterne esercitare un controllo più efficace contro l’evasione degli affitti e delle tasse. Anche per queste ragioni, i mulini del periodo veneziano, si trovano di solito vicino alle ville dei signori, come il mulino di Villa Renier o di Villa Trevisan. Il signore feudale finanziava la costruzione del mulino ad acqua e poi lo affittava, di solito alla stessa famiglia che aveva in affitto il terreno per la coltivazione. È da notare che l’affittuario del mulino si riservava il diritto di subaffittare il mulino a terzi. I mulini che operavano come mulini stagionali, di solito da settembre a marzo, venivano affittati su base mensile. La manutenzione dei mulini era principalmente responsabilità del proprietario e solo alcune piccole riparazioni a basso costo erano a carico del mugnaio. Nei contratti di concessione venivano stabiliti obblighi specifici per ciascuna parte, ad esempio l’obbligo dell’affittuario di riparare e mettere in funzione il mulino per un certo periodo di tempo in cambio di una corrispondente esenzione dall’affitto per alcuni anni. Qualunque fosse il rapporto tra feudatario – affittuario – subaffittuario, Venezia considerava importante la costruzione di mulini ad acqua e li finanziava, come si evince dalla relazione redatta nel 1583 da Pietro Castrofilaca, conservata presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Castrofilaca, che a Creta svolgeva le funzioni di segretario dei Provveditori, nel 1583, su ordine delle autorità veneziane effettuò un censimento sistematico della popolazione di Creta basandosi anche su un precedente censimento effettuato nel 1577 dal provveditore veneziano Foscarini, che permette di mettere in luce molti aspetti organizzativi sociali ed economici della Creta veneziana e dai quali ricaviamo ad esempio, come un mulino ad acqua fosse tra gli oggetti rientranti anche nella consistenza di una dote matrimoniale.
In particolare poi, a partire dal ‘500, nello stato da tera si fa sempre più presente tra i proprietari la nobiltà di alto rango veneziana, intenta a cercare altre forme di investimento al di fuori del tradizionale commercio marittimo, così che tra i proprietari, solo per citarne alcuni, troviamo i nomi dei Foscari, dei Morosini, dei Priuli, dei Grimani, dei Contarini, dei Cappello e una forma di gestione molto simile a quella cretese, basata sull’affitto con contratti brevi a tre, massimo cinque anni che comportavano, oltre al canone, spesso corrisposto in natura, anche l’obbligo di alcune regalie come pesce o altri animali da allevamento da consegnare al proprietario e soprattutto l’obbligo alla manutenzione e al miglioramento del bene.
Nella sua forma quasi standard, il contratto prevedeva due parti ben distinte. La prima fissava canone e durata, la seconda consisteva nella valutazione in danaro di ogni parte del mulino redatta da due periti in rappresentanza delle due parti. Terminata la locazione si provvedeva ad una seconda perizia e in caso di danni o deterioramenti, il mugnaio doveva provvedere al rimborso.
Il contratto si apriva normalmente con l’indicazione del luogo dove era posizionato il mulino e la descrizione sommaria del materiale di costruzione. Poi proseguiva con l’eventuale segnalazione dell’abitazione del mugnaio e della stalla e quindi il numero di ruote che potevano essere affittate anche a mugnai diversi che così si ritrovavano a lavorare fianco a fianco. Seguiva la durata della locazione e l’entità e la modalità di pagamento. Infine le obbligazioni cui dovevano sottostare i conduttori, di solito il compito di mantenere in efficienza il manufatto. Ottenuta la conduzione il mugnaio acquisiva anche il diritto di pescare nelle sue vicinanze, lungo la rosta e nella gora. Non era raro infine che oltre al mulino il mugnaio affittasse anche campi coltivabili non necessariamente adiacenti al mulino e i terreni, generalmente paludosi e a costante rischio di alluvione, a ridosso delle rive.
Anche in Istria, la maggior parte dei mulini apparteneva, soprattutto sul corso del Risano, a importanti famiglie nobili di Capodistria (Tacco, Borisi, Brutti, Barbabianca, Grisoni, Gravisi, Tarsia, Marenzi, Del Bello) e, negli anni Venti dell’Ottocento al barone Rossetti di Trieste o altri piccoli possidenti locali (ad es. Sich, Princich Petrina, Macnich, Perosa). Nell’area di Pirano don Luigi Predonzan possedeva sul torrente Strugnano (Roia) un mulino (n. cat. 75), Giuseppe Bianchi due mulini (i nn. cat. 1119 e 1123, sul Rio Fasano), Bernardo Schiavuzzi tre (i nn. cat. 20, 1931 e 1932 sul fiume Dragogna) ed i conti Rota due (nn. cat. 108 e 109 sul torrente Argilla, affluente del Dragogna). Nell’umaghese il marchese Giuseppe Fabris era proprietario di un mulino sul torrente Patocco (n. cat. 82), mentre a Petrovia esisteva il mulino (n. cat. 47) del conte Nicolò Marcovich.
Raffaello Vergani nel suo “Gli opifici sull’Acqua: i Mulini”, cita un censimento operato dalla Repubblica di Venezia nel 1766 dove per il Veneto, nei suoi attuali confini, si menzionano 4.000 mulini circa, 156 folli da panni, 515 mole, 204 segherie, 90 magli, ovvero, su una popolazione di 1.359.167 abitanti e cioè di circa 1 mulino ogni 340 abitanti.
Nel 1869 si valutava il numero dei mulini a 5.214 che con una popolazione di 1.893.647 persone, significava 1 mulino ogni 363 abitanti.
Attorno agli anni Venti dell’Ottocento sul territorio geografico istriano (precedentemente suddiviso tra la provincia veneziana dell’Istria e la Contea arciducale) in 72 comuni catastali esistevano complessivamente 228 mulini ad acqua.
Sul territorio geografico istriano (che comprende la parte veneta assieme alla parte imperiale della Contea di Pisino) sono stati individuati in totale, in 72 comuni catastali, complessivamente 228 mulini ad acqua attorno agli anni Venti dell’Ottocento.
I distretti con più alta presenza di mulini erano quelli di Pisino (65), Capodistria (51) e Pinguente (34). Intere zone, come i distretti di Pola e Rovigno – senza corsi d’acqua – ne erano invece totalmente prive, mentre nel distretto di Parenzo è censito un solo mulino.
I bacini dei fiumi Quieto ed Arsia (con i rispettivi affluenti) erano i più ricchi di mulini (rispettivamente 58 e 42), il bacino del torrente Borutto e del Foiba ne ospitava 21, mentre quello del Dragogna 19. Lungo il breve corso del Risano sono segnalati ben 28 mulini.
Precedentemente, Venezia raccolse nel 1766 e nel 1771 (e poi ancora successivamente fino al 1790) in tutto il suo territorio una serie di dati statistici; da queste fonti, per l’Istria settentrionale non risultano ruote o mole a Muggia e Isola, né per l’Istria centro-settentrionale a Cittanova, Momiano, Visinada, Castellier, Piemonte. Il numero dei mulini registrati nell’Istria veneta è di 191 mulini nel 1776, mentre sale a 203 nel 1771. Per il Risano vengono censiti 52 (54) mulini, dato che sembra sovrastimato in quanto nel Catasto franceschino sono registrati 51 mulini in tutto il distretto di Capodistria, che comprendeva anche i comuni censuari di Carcauze, Costabona, Cuberton, Gradigna, Merischie, Momiano e Sterna.
La grande diffusione e la normale presenza di tanti mulini sparsi ovunque nei territori della Serenissima e nelle loro diverse forme, trova una ulteriore e significativa conferma nei tanti pittori di area veneziana che non mancano di inserirli nei loro lavori; dagli sfondi dei dipinti di Giovanni Bellini, a quelli di Lorenzo Lotto, del Canaletto, del Bellotto o del Ciardi. Per tutti prendiamo un particolare da uno dei paesaggi dallo straordinario ciclo di affreschi di Paolo Veronese del 1561 a Villa Barbaro di Maser dove, con sullo sfondo di un importate abitato, risalta in primo piano proprio un mulino con due pale alimentate da un modesto corso d’acqua.