I TERMINI LINGUISTICI  MOLITORI. IL CASO ISTRIANO

 Ma cos’è rimasto di questo antico mestiere? In quanti sono rimasti a poterne raccontare oppure a portarne memoria? Possiamo forse riscontrare nella lingua odierna qualche ombra del passato? Sicuramente qualche detto, uno per tutti è: Chi fugge la mola, scansa la farina (chi non vuole impegnarsi non ottiene nulla).

Nel gergo salinaro molte sono le similitudini tra il nostro dialetto e quello veneziano, stabilire quanto però del linguaggio molinaro sia sopravvissuto è compito molto difficile da svolgere. Basandoci sull’eccellente e ancora valido studio del Boerio sono stati scelti alcuni termini (96) i quali sono stati confrontati con il vocabolario del Rasmani e un glossarietto della terminologia raccolto da Roberto Starec. Senza poter verificare con una fonte orale, ci si deve affidare alle fonti scritte, non sempre antiche a volte anche contemporanee. Molte volte il lemma descritto dal Boerio non è stato trovato, e a volte il lemma ha cambiato uso. Ma vediamo nel particolare, con esempi.

Su 96 termini solo il 44% non si è conservato, o meglio, non ne abbiamo trovato traccia nelle nostre fonti; il 54% è stato ritrovato e tre termini hanno cambiato significato. La veneziana “cavaleta” (sostegno in legno) in istro-veneto diventa “capra” o cavalletto poiché “due capre sostengono un ponte da fabbricare”; la “lanterna” o rocchetto da noi è semplicemente una luce mentre la “sogia” (trave o tronco) è una ghirlanda di fiori.

Soprattutto i termini tecnici relativi proprio al mestiere, agli usi e alle parti del mulino non si sono conservati, questo progetto però ha il grande merito di riproporli.

Nella seppur vasta bibliografia che riguarda lo studio dei mestieri propri del nostro territorio, i termini che qui sotto elencheremo, non si sono conservati: antipetto, asegiera, asegio, brazol, brazolar, buova, buovon, farina abbruciata (farina con poca semola), farinazzo, farinela, giova o iova (palo), granziol (farina non macinata bene); ingonciar (aguzzare) che a Capodistria è stato ritrovato come gusar, con il significato di affilare; brazol per fuso; brazolar – la sostituzione dei fusi/brazoli; buova o bova (paratoia mobile) che da noi, nel gergo dei salinari è boca o calio; buovon o bovon – paratoia più grande; moladura per macinatura non si è conservato così come non vi è traccia di moleta da gusar o piccola macina. Un termine curioso che potrebbe essere nato oggi, è “mostra” ovvero un sacco campione del grano del quale non si è rilevata traccia in alcuna pubblicazione consultata. Nemmeno i termini “naichia o naigia” hanno avuto maggior fortuna, questi ferri orizzontali a forma di farfalla non si sono fissati nel nostro dialetto. Il lemma perfil o prefil che indica una condotta non è stato trovato in nessun testo consultato, piumazzo (grossa tavola di legno); pizon (terrapieno di forma triangolare); posta (quando indica un salto d’acqua); restera (luogo lungo i fiumi dove si tirano le barche contro corrente); sboccatura (cavità della mola); scudo o lubecchio (corona dentata); siaglia (semola) e volandiva non hanno lasciato traccia di sé.

Sono rimasti, ritrovati nello Rasmani, ma hanno conservato un’altra forma: buratar – tramisar (setacciare); buratto – tamiso (setaccio); ponteselo (impalcatura) – pontisel (passatoio).

Alcuni termini, invece, sono ancora in uso in diversi mestieri come, per esempio: acqua morta (stagnante), chiodera che è diventata gancio, colona sinonimo di palo o trave, conzadura o conzare per mondare il grano; burchio – burcio (grande piroscafo da carico); bossolo dela mola (cilindro di legno); martelo è il nostro martel (tipico troncamento dell’ultima vocale); masena, e i suoi derivati, sono rimasti invariati dunque anche masenadura (quota del macinato) e masenar – macinare; mastela è il secchio di legno; mezal o mezà è l’ammezzato oppure stanza da definire. Sono rimasti intatti tutti i termini che derivano da molino o mulino, nella fattispecie molin o molino a vento; molinelomuliner o mulinello da grano; moliner e muner dove il primo indica il mestiere e il secondo il mugnaio. La ruota o roda si usa ancora, semola per crusca (è un sinonimo);

Non va assolutamente confuso il pajolo con il pajon, il primo indica una tavola, che nel nostro dialetto può essere trovata anche nell’accezione di “tavolato anche scomponibile che copre il fondo della barca”. Il pajon è invece il pagliaio, reso famoso dal ritornello di una canzone popolare “Far l’amor sul pajon”.

Poi ci sono termini che hanno dato origine a un mestiere ed è questo il caso dei crivelladori (operai che vagliavano il grano con i crivelli); bolladori i quali sigillavano i sacchi con un bollo; marangon per falegname e sazadori (uomini che effettuavano il sazo).

Altri, invece, indicano una cosa diversa come il burchiello nella forma grafica burciel non è una barca dal fondo piatto ma una specie di barchetta tutta traforata dove si custodiva il pesce vivo. Questa è una caratteristica vicina più alla itticoltura, ma una vecchia cartolina di Capodistria ne testimoniava l’uso. Anche la semplice caziola ha diversi significati, dal più semplice cioè la cazzuola del muratore alla più antica, veneziana “tavoletta di legno per raccogliere il grano” avente però ai lati dei bordi così da non far scivolar i granelli. Il termine indentar (sostituire i denti degli ingranaggi) non è stato riscontrato, è stato trovato però il termine dental (sempre la radice -dente) che nel nostro dialetto istro-veneto indica il ceppo dell’aratro sul quale s’attacca il vomere (zona Dignano). Le banche in veneziano indicano delle panche di legno, mentre nel dialetto istro-veneto vi è l’espressione banco ad indicare il maschile di panca. Il bancon, che indica una tavola di legno molto resistente, diventa bancone ovvero l’accrescitivo di banco (come voce recente). Il libo – una piccola imbarcazione – che da noi si è trasformata in un cesto, nella bricolla del contrabbandiere, oppure può essere anche una piccola barca sulla quale si passa parte del carico per alleggerire la nave. Forse la prima definizione ha le sue origini proprio nella storia del contrabbando del sale, per la quale questi territori erano molto famosi. Il veneziano sogia che significa trave o tronco nell’istro-veneto ha preso il significato di “ghirlanda di fiori bianchi”.

Sono stati ravvisati anche termini particolarmente obsoleti quali chuna per culla, ghebo per canale stretto; gora per fossa (lo scavo in un campo dove scorre l’acqua); minela è il recipiente per pesare il grano e da noi si è conservato il termine ma indica una piccola porzione; sazo che in veneziano significa “sistema di controllo”, nel nostro dialetto si è conservato come “piccola misura”, come diminutivo di “assaggino”, già presente in latino come un’oncia romana. Sborador per indicare uno sfogo sia dei liquidi che del vapore può ancora essere ravvisato; sforzin per uno spago più resistente – che regge lo “sforzo”;

Altri con forme grafiche tipiche del veneziano che abbondano di vocali e che si vedono aggiunta qualche “h” per rendere la pronuncia non sonora come “chaene” per catene o ancora chaneole; litiera per letto; liviera o lieva per leva. La rosta, che in antico veneziano indica l’argine (o un sostegno, un terrapieno che convoglia le acque della gora verso il mulino), nel dialetto istro-veneto indica una pescaia cioè sia uno sbarramento di un corso del fiume per la pesca ma anche per deviare l’acqua ad uso del mulino. L’evoluzione del termine è molto interessante, poiché indica due cose molto simili ma destinate a due diversi usi: nuovamente appare l’itticoltura come discriminante per la sopravvivenza di un termine. Stramazzo in questa veste grafica veneziana da noi indica “lo stramasso” ovvero il materasso mentre se si scrive stramaso il suo significato cambia e diventa o portavasi negli scali da costruzione oppure una fodera di legno con cui si copre l’unghia dell’ancora (per evitare che quest’ultima graffi o danneggi lo scafo).

Qualcosa si è conservato, secondo il Rosmini, anche nel dialetto giuliano e nella sua eccezione capodistriana, è rimasta crosera per crocevia; erta per stipite; soler o pavimento che per estensione è diventato solaio (soffitta o sottotetto), stanga per pertica e spesso indica anche una persona molto alta e magra. La tramoza ha attraversato indenne gli ultimi secoli ed è rimasta intatta nel suo significato, tramoggia che contiene il grano da macinare che passa alla macina o al frullone. Al suo pari anche la chiera o cerchio di ferro indica ancora oggi un cerchietto di metallo che si mette all’estremità di alcuni oggetti in modo che non si aprano.

Certe parole scelte e riproposte nel glossarietto qui sotto, sono termini che potremmo definire neutri, o meglio che non indicano qualcosa in particolare ma hanno un significato generale. Le assi di legno possono essere definite diversamente in base alla regione, per cui abbiamo l’antico veneziano banchette, che nel dialetto istro-veneto diventano il diminutivo – forse per estensione del termine – panchetta poiché indicavano delle basi d’appoggio, dove ci si poteva anche sedere. La campanela rimane sempre un sonaglio o comunque un arnese che suona; investitura per concessione; inzegnon coi so fornimenti – gli ingranaggi in genere; mola non è cambiata. La definizione di pertinentie del molin che indica i luoghi limitrofi che appartengono al mulino è un termine generico che veniva utilizzato di sovente proprio per specificare ciò che appartiene, in questo caso, al mulino. Una cosa molto simile vale per la “Pietra di San Marco”, che era una specie di manifesto in marmo contenente le misure dell’impianto del mulino. Forse non era questa la terminologia utilizzata, ma tali incesellature possono ancora essere trovate nelle piazze e definiscono proprio le misure del sale, la sua quantità. Un esempio si trova in Piazza Tartini a Pirano. Un termine semplice come scaletta anche se non trovato nel dizionario, è ancora in uso, così come troviamo ancora in uso semolin mentre si è persa la forma venziana del semolello per cruschello. La visita che in questo specifico contesto andava a indicare l’ispezione può essere nuovamente intesa come un termine neutro: non significa esattamente “far visita” ma può essere inteso come “visitare” per “esaminare”.

In conclusione di questo breve excursus filologico possiamo dire che se i termini tecnici sono venuti a mancare insieme al mestiere – poiché nati con esso – certe parole di uso comune sono però rimaste, magari aggiornate nella grafica e con una vocalità o pronuncia diversa. Per esempio nel dialetto veneziano le “elle” sono pronunciate diversamente e qualche volta vengono anche a cadere come per cae per “calle”, elemento assente in istro-veneto.

Rimane però quel 66% e il 54% dei termini che si sono conservati e che possiamo ancora oggi udire dagli italofoni o dialettofoni che vivono sul territorio istriano. Vi è una differenza tra le varie parlate o varianti dialettali locali, certo, poi c’è una differenza da fare con l’istrioto parlato soprattutto nell’Istria meridionale. Sicuramente cambia la musicalità con cui la lingua viene espressa, ma la vicinanza tra i due dialetti è innegabile.